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Falsi autografi e onanisti mancati…

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In mano a un cretino anche la perfezione diventa storta, anche il sublime diventa fango. In mano a un cretino, Leopardi non è più un poeta ma un gobbo rancoroso.

Francesco Merlo

 

Non sto a far citazioni puntuali, parlerò a braccio, perché ciò che devo commentare non abbisogna né merita smentita scientifica. Parlo di due brevi articoli sul web, che chi vuol seguirmi si dovrà forse sorbire, se non per altro per veder coi suoi occhi la riproduzione del presunto autografo di cui intendo discutere. Avvertenza: leggerli cum grano salis. Non tanto perché si parla di onanismo, di libri proibiti, di leopardeschi pruriti: del che a  noantri, nun ce ne pò frega’ de meno. E nemmeno ce ne cale se qualche pseudo-scrittore sublimi le sue frustrazioni trasferendole agli dèi. Lo si è sempre fatto: l’uomo crea dio a sua immagine e somiglianza. Se mai, quel che spesso infastidisce è che certe testate scandalistiche, certi raiders of the lost scandal,  approfittino platealmente dell’ignoranza dei loro lettori. Ma tant’è, anche il lettore ha la sua responsabilità, per cui se succubo, ha quel che si merita.

 

Gli articoli sono i seguenti: il primo, dello scrittore e giornalista Roberto Barbolini, pubblicato su «Panorama» (piccolo file PDF [online 29-07/2011, 120 KB: si scarica in automatico). Il secondo, del critico saggista Gennaro Cesaro, sul suo blog [online 29-07/2011]. Le apposizioni ‘scrittore’, ‘giornalista’, ‘saggista’, ‘critico’, sono regalo grazioso di Wikipedìa, sulla cui attendibilità non disquisisco, perché non si disquisisce sull’anonimato, che, nel suo nulla, può giungere alla coincidenza di lemma e redattore (Eco lo ha dichiarato pubblicamente, forse non rendendosi conto che quel suo minimo intervento wikipediano, sia pur giustificato, solleva un maledetto “conflitto d’interessi”: che, prima o poi, potrebbe affossare Wikipedia).

I. Gli onanisti

In buona e sintetica sostanza, e sorvolando sull’imperante cattivo gusto che, come la stupidità umana dell’aforisma einsteiniano, è più infinito dell’universo, questi due articoli affermano:

 

1.     Leopardi si masturbava.
2.     Il babbo gli vietava le letture pruriginose.
3.     Giacomo aggirò il veto paterno con una supplica a papa Chiaramonti.
4.     Leopardi poté finalmente leggere Eugène Sue e le letture peccaminose edite dal Sonzogno.

 

Cui si risponde:

 

1. (Leopardi si masturbava) — Lasciamo perdere la testimonanza, niente affatto chiara, di Carlo Leopardi (1). Amava il fratello, e andare a spiattellarne i segreti intimi (ci avrebbe ben pensato Ranieri), era l’ultima cosa che si sarebbe mai sognato di fare. Ma interpretiamolo pure in questo senso, come già fecero, nell’Ottocento, il Montefredini, il Patrizi e alcuni ambienti cattolici. È un atto naturale, come mangiare bere respirare, e diffiderei piuttosto di chi non lo fa. Che poi il Barbolini, su «Panorama», ci abbia ricamato sopra ben due pagine, infarcite di errori, costituisce non solo e non tanto misura dei limiti culturali della rivista e suoi, ma dello stato deplorevole della cultura di massa in Italia. (2) E se proprio dobbiamo affrontare l’argomento, invece di lasciarsi andare a banali, insulse e antistoriche prurigini ci si dovrebbe render conto del dramma adolescenziale ed esistenziale del giovane contino, religioso al punto da non calpestar la croce sul pavimento, e forse intriso a sangue da un “gravissimo peccato”, reale solo nella sua testa troppo immaginosa. Irridere le sue pulsioni è vacuo sterile ignobile; tanto più che il fatto è indimostrabile, e c’è invero chi ha pensato, forse non a torto, che i suoi sette anni di studio matto e disperatissimo nella biblioteca paterna fossero anche un modo per sublimare — direi quasi ‘deviare’ — il suo sano istinto sessuale. Vale a dire che gli indubbi problemi psicologici del giovane Leopardi, magari nascevano proprio perché non si masturbava. Una tesi vale l’altra, anzi, è quest’ultima che dà meglio ragione di certi suoi squilibri psichici.

 

2. (Il babbo gli vietava le letture pruriginose) — Che Monaldo non se ne sarebbe compiaciuto, su questo non ci piove, ma è platealmente falso, come sa chiunque abbia letto l’Avòli, Traduzione di Lucrezio del Marchetti 1717che gli vietasse la scansia dei libri proibiti: anzi, fin dal 1813 fu proprio Monaldo che si preoccupò di ottenere per i suoi figli, e in seguito perfino per Paolina, la licenza per leggere tali libri.

 

3. (Giacomo aggirò il veto paterno con una supplica al papa) — Nessun veto, come si è appena visto, ché la licenza gli era già stata elargita da parecchi anni, e grazie ad essa aveva potuto leggere materialisti ed illuministi francesi (Voltaire, Diderot, Dolbach ecc.) e mille altri, anche autori come Lucrezio (estesamente citato nel Saggio sugli errori popolari degli antichi del 1815). Prima ancora gli era servita per leggere la secentesca Bibbia Poliglotta di Londra, parimenti vietata, e su cui affinò la sua conoscenza della lingua ebraica. Inoltre la licenza non era affatto definitiva: durava pochi anni, tanto che a più  riprese dovette richiederla. Così sembrerebbe nel 1819, ove il rescritto del cardinal Consalvi recita: «Ex audientia SS.mi die 13 aug. 1819. Renovatur Clerico Jacobo Leopardi licentia legendi libros prohibitos, exceptos tamen eos ex professo contra bonos mores» e si noti bene quel renovatur, cioè “rinnovo”, un po’ come quello della patente. Così certamente nel 1825, ove una lettera di Monaldo recita «vi scrissi a Milano, che il cav. Antici mi mandò per voi la licenza di leggere e ritenere libri proibiti». E ancora nel 1834 il cugino Melchiorri spediva al Ranieri una licenza che forse serviva più a Giacomo che all’amico.

 

4. (Leopardi poté leggere Eugène Sue e le letture peccaminose edite da Sonzogno) — Vera e propria cantonata, che par derivare da una errata lettura, da parte del Cesaro, di una visita a Recanati di Giovanni Spadolini. Eugène Sue era nato nel 1804 e cominciò a scrivere negli anni trenta, in ogni caso quando Giacomo aveva già lasciato, e per sempre, la casa paterna. Quanto al Sonzogno, la letteratura di massa cui si  allude nacque solo con Edoardo Sonzogno, nella seconda metà del secolo. Ai tempi del Leopardi i libri pubblicati trattavano di antichità greche e romane, geografia, agricoltura, viaggi ecc. Giacomo stesso fu contattato da Giovan Battista Sonzogno, nel luglio del 1818, perché collaborasse alla novella collana di storici greci volgarizzati, opera meritoria che fruttò celebrità alla casa editrice. In altre parole: Sue e libri del peccato sono finiti nella scansia dopo la morte di Leopardi. Magari c’era Lucrezio, e la fine del IV libro non è una bagattella, ma per arraparcisi sopra ci vuole una fantasia che forse nemmeno Giacomo possedeva. Altri libri “francesi”? se il fine fosse veramente quello strologato dal Cesaro, che fregatura, povero Giacomino! Si legga bene il rescritto del 1819, al punto precedente: gli erano ancora espressamente vietati  i libelli contra bonos mores! (3)

II. Gli autografi

E veniamo finalmente alla supplica, nient’affatto «sepolta negli archivi» come vorrebbe il sottotitolo a sensazione di «Panorama», bensì nota agli studiosi fin dal 1898: ne parlano il Cozza-Luzi, Moroncini, Giuseppe De Robertis, il Timpanaro ecc. ed è stata più volte riprodotta: una buona riproduzione relativamente recente si trova nell’Album Leopardi del Damiani; ma anche quella della rivista, se si ingrandisce un po’, è sufficientemente chiara. Il testo recita:

 

B(eatissi)mo Padre


Giacomo Leopardi figlio del Conte Monaldo di Recanati

dovendo consultare per i suoi studi diverse opere, spe-
cialmente filosofiche, chiede nuova facoltà di poter leg-
gere libri di ogni specie; giacché anche gli stessi ve-
leni riescono talvolta potentissimi rimedi, cosí per
poter combattere vittoriosamente gli avversari fa duopo
conoscere le armi con le quali aggrediscono.
Che della grazia

 

con «Che della grazia»  seguita da un anomalo ghirigoro. Perché poi questa riga manchi nelle due riproduzioni sul web, sostituita da un secondo Giacomo Leopardi che parrebbe ricalcato — per non dir clonato — pari pari sul primo (oltretutto inutile: non ci si firmava due volte) non lo si chieda a me. A tacer d’altro, lo scritto contiene due accenti acuti in fine di parola (giacché, cosí) assolutamente assenti nella grafia leopardiana, che vi contempla il solo accento grave. Inoltre il trattino per andare a capo a fine rigo, in Leopardi è sempre doppio, mai singolo. Le maiuscole presentano riccioli estranei all’usus leopardiano. Alcune lettere, la ‘f’, la ‘M’ ecc. non convincono affatto, per non parlare dello stile. Insomma, per dirla in breve, un falso, già segnalato come tale, e con più sostanziosi argomenti, dal grande Sebastiano Timpanaro nel 1966, sul «Giornale storico della letteratura italiana». Vale a dire che la richiesta della licenza inoltrata nel 1819 non è sicuramente questa. Forse un giorno, spulciando fra le carte vaticane, salterà fuori. Nell’attesa…

 

ci complimentiamo coi Sigg. Barbolini e Cesaro per l’erudizione e per l’acribia dimostrate.

 

 

(1) Cfr. l’Appendice all’Epistolario del Viani (1878): «Provò funestamente precoce la sensibilità della natura. Anticipò di quattro o cinque anni l'età dello sviluppo! Indi, com'egli mi confessò poi, tutti i mali fisici della sua vita. Vero fenomeno! La stessa natura, concedendo troppo o precorrendo il tempo, uccide o fa miseri». Naturalmente il Barbolini nella sua citazione ha omesso proprio quel «Vero fenomeno!» che ne chiarisce il senso, confermato nel 1882 da Teresa Teja, seconda moglie di Carlo: «Nessuna macchia ha profanata la gioventù di quei due fratelli che ignorarono persino i vizi che ordinariamente la pervertiscono». Di più, la testimonianza del Viani è di riporto, e già la Teja, in una lettera del 1874, vivente e consenziente il marito, lo aveva definito senza mezzi termini «ciarlatano», premettendo: «Viani è capacissimo di qualunque menzogna e cose apocrife». Ma voglio offrire agli onanisti una lancia che essi sembrano ignorare: sempre la Teja ha lasciato scritto «Il C.te Monaldo accarezzò grandemente questa tendenza [allo studio matto e disperatissimo] del figlio, sperando che quei forti studi lo distraessero dai desidèri inquieti, dai cupi e vaghi disgusti che già si manifestavano in lui». Chi invece non l’ha ignorata è Elio Gioanola (Ethan Frome, in rete il 29-07/2011) che non mi sembra però aver ben contestualizzato la pagina e l’autrice: oltretutto desidèri inquieti è in netta opposizione con i cupi e vaghi disgusti, e potrebbe ben alludere, per esempio, al desiderio d’evasione da Recanati, così osteggiato da Monaldo. La ricostruzione del Gioanola è indubbiamente più intelligente ed elegante di quelle che sto commentando, ma, a mio parere, parimenti tendenziosa, e contraddetta dal primo passo di Teresa Teja citato in precedenza.

(2) Come ho scritto in altro luogo a tematica affine «che in rete vi siano 2.010.000 link di Google a “Leopardi gay”, cioè il doppio di quelli a “Leopardi a Silvia” + “Leopardi ginestra” + “Leopardi passero solitario” + “Leopardi infinito” (da digitare senza virgolette,  06-05/2011) è paradigma infelice dell’Italiano medio del 2000, sia esso gay o no».

(3) Sempre Teresa Teja ci dà un esempio di quali realmente fossero le “letture proibite” di Leopardi quindicenne: «Giacomo a 15 armi, e Carlo a 14, non avevano trovato nella bibl.ca paterna, a pascolo delle loro vaghe brame di letteratura amorosa, se non un vecchio libro, in una barocca edizione di Amsterdam, niente più che un romanzo in prosa latina, intitolato L’Argenide; la più noiosa, la più pedante novella possibile — almeno così pareva a loro — ma l' amore, il più ideale, ne era l'argomento, e ciò lor bastava! E anche, dicevami Carlo, lo leggevano di nascosto, durante il riposo pomeridiano dei loro genitori, nelle giornate estive, ore della loro ricreazione!» (corsivi miei). Altre letture che appassionavano i due giovinetti il Telemaco di Fenelon e il Robinson Crusoe. Sempre dalla Teja sappiamo che fu Paolina, dopo la morte dei genitori, che arricchì la biblioteca di di «opere considerevoli della moderna letteratura, tanto italiane che francesi». Ciò non stupisce perché è assodato da sempre l’interesse di Paolina per i romanzieri francesi (si suol citare la lettera di Giacomo in cui le dice “ho riveduto il tuo Stendhal”). Ma quando Eugène Sue sia entrato nella biblioteca di casa Leopardi non saprei dire. Se Spadolini l’ha visto di sicuro ci sarà, ma nel famoso Catalogo del 1847-1899, ripubblicato di recente per le sagaci cure di Andrea Campana, non è ancora presente. Vero è che vi sono L’onanismo di Tissot e La Cicceide, quest’ultima opportunamente relegata fra i libri proibiti.

 

 

© 27-07/2011 —> 02.07.2019

Angelo “quixote” Fregnani