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Con tutto che esistessero, ai tempi in cui venne redatto questo componimento, versificazioni varie Contro questa o la tal altra stupidaggine, con tutto che insulsaggini consimili vennero composte anche in età classica (cfr. ex contraria parte, L’elogio della mosca di Luciano, e tutto il repertorio ellenico pro e contro quella o quell’altra “quisquilia”), noi non faremmo carico al Leopardi undicenne di una erudizione prematura, di cui per certi versi egli poteva comunque possedere già qualcosa di più d’un semplice sentore. Pure l’intento ironico-satirico, se pur in nuce, anticipa già qualche prodotto di ben altro spessore, e piace comunque trovarsi davanti al giovane contino strafottente ed altezzoso, fin verso gli inferiori (cfr. v. 10). La Corti ricorda, en passant, che Giacomo era a tavola alquanto schizzinoso. Ma ciò era probabilmente dovuto alle idiosincrasie, più o meno motivate, del valetudinario cronico. Il piccolo Muccio, ancor sano, come la gran parte dei bambini era semplicemente insofferente alla “minestrina”, e, come loro, forse più al modo e al tono con cui viene, ci veniva, ed anche a lui veniva ammannita. Piuttosto stupisce come egli, già a undici anni, riuscisse ad oggettivare la sua antipatia gastronomica, e a darne un gustoso ritratto in versi. Testo secondo la Corti; pubblicato la prima volta in un paio di riviste da A. Pescio nel 1937.

 

 

Contro la Minestra

VERSI MARTELLIANI

 

Apri, o canora Musa, i boschi di Elicona,
E la tua cetra cinga d’alloro una corona.
Non or d’Eroi tu devi, o degli Dei cantare,
Ma solo la Minestra d’ingiurie caricare.
Ora tu sei, Minestra, de’ versi miei l’oggetto,
E dir di abbominarti mi apporta un gran diletto.
Ah se potessi escluderti da tutti i regni interi;
Sì certo lo farei contento, e volentieri.
O cibo, invan gradito dal gener nostro umano!
Cibo negletto, e vile, degno d’umil villano!
Si dice, che risusciti, quando sei buona i morti;
Ma oh detto degno d’uomini invero poco accorti!
Or dunque esser bisogna morti per goder poi
Di questi beneficj, che sol si dicon tuoi?
Non v’è niente pei vivi? sì mi risponde ognuno;
Or via sù me lo mostri, se puote qualcheduno.
Ma zitto, che incomincia furioso un certo a dire;
Presto restiamo attenti, e cheti per sentire.
E dir potrete vile un cibo delicato,
Che spesso è il sol ristoro di un povero malato?
Ah questo è uno sproposito, che deve esser punito,
Acciò che mai più possa esser da alcun sentito. (1)

È ver, ma chi desidera la Dio mercè esser sano
Deve lasciar tal cibo a un povero malsano.
Piccola seccatura vi sembra ogni mattina
Dover mangiare a mensa la cara minestrina?
Levatevi, o mortali, levatevi d’inganno,
Lasciate la minestra, che se non è di danno,
È almen di seccatura. Ora da te, mia Musa,
Sia pur la selva opaca del tuo Elicone chiusa.
Io forse da qualcuno talor sarò burlato,
Ma non m’importa bastami, d’essermi un po’ sfogato.





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1 – I vv. 19-22 sono pronunciati da un immaginario contraddittore, il «furioso» del v. 17 (Monaldo-Amostante?).

 

 

© 07-06/2010—> 02.10.2010