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Dimenticanza.PDF

 

 

Nota – «Burletta anacreontica» la chiama il poeta, ovvero una canzonetta allegra in quartine di settenari. Scritta in un arco di tempo non ben definibile, che va dal 1811 al 1816, fu pubblicata la prima volta dal Piergili (La dimenticanza. Poesia giovanile di G. L. pubblicata per nozze Della Torre-Mattei, Recanati, Tipografia Badaloni, 1874), sulla scorta di un apografo recanatese, mentre il testo dell’autografo, fra le carte napoletane (AN XV 39), venne per la prima volta pubblicato da Giovanni Mestica 1899 (e non dal Flora, come erroneamente sostiene la recente e sfortunata edizione critica del Gavazzeni 2009). La lettura del componimento non presenta difficoltà particolari, per cui rimando chi avesse velleità storico-filologiche, non disgiunte da qualche cenno utile al sottofondo biografico, al mio studio, ben più sostanzioso, in formato PDF (richiede almeno Acrobat Reader 9), cui sono stato costretto per il rilevante numero di note a pie’ di pagina. Qui mi limito a riportare un testo di rappresentanza, per altro redatto tenendo a fronte la riproduzione dell’autografo.

 

Metro – Canzonetta in quartine di settenari, con struttura abcb, ove le rime irrelate son sempre sdrucciole. Da notare le rime tronche (vv. 86, 88), nella “scena madre” del finto agguato.

 

La Dimenticanza.

 

Nel tempo in che dileguasi
All’orizzonte il rosso,
Quando più forte gracida
La rana dentro al fosso:

Allor che gli astri brillano
Nel cielo azzurro e puro,
E splendono le lucciole
Sul verde suolo oscuro:

Allor che ad ogni piccolo
Romor che fa ’l viandante,
Gl’inquieti cani abbajano
Ai casolari innante:

Nella stagion più fervida,
In una notte bruna,
Fresca, serena, placida,
Bella, ma senza luna:

Alla città tornavano
Da non lontana villa
Tre giovinetti nobili
Cleon, Lucio, ed Eurilla.

D’un attempato e ruvido
Fattore in compagnia,
Vermiglio, grasso, florido
Pedante li seguia.

Lenti pel calle tacito
Traean la pancia piena,
Che fatta al campo aveano
Una gioconda cena.

Frugali sempre e savii,
Di carne avean mangiato
Sol quanto sulla tavola
Per sorte avean trovato.

Rappreso latte candido,
E saporiti e buoni
Per Lodigiano cacio
Pugliesi maccheroni;

Con frutta, e qualche intingolo
Di rustica cucina,
Desta, e sopita aveano
Lor fame vespertina.

Di quel licor vivifico
Che l’alme allegra e bea
La refezion gradevole
Mancato non avea.

Ed il pedante rigido
Per dare il buon esempio
È fama che di calici
Facesse orrendo scempio.

Però mentre moveasi
Con comodo, pian piano
Dai tre fratelli nobili
Si vide alfin lontano.

E quei con burle ingenue
Figliuole del buon vino
Allontanando givano
La noia del cammino.

Cleone, astuto giovine
Che d’essi era il maggiore,
E avea tra gli altri vizii
Un capriccioso umore;

Con uno scherzo innocuo
Fitto s’aveva in testa
A quel pedante macero
Far terminar la festa.

Di man di Lucio subito
Si tolse un ombrellino
E di seguire ingiunsegli
Co l’altra il suo cammino.

In terra quindi l’abito
Ed il cappel depose,
E dietro ad un grand’albero
Ridendo si nascose.

Pel calle solitario
Stanco il pedante e caldo
Veniva tranquillissimo
Ciarlando col castaldo.

Aspetta il furbo giovine
Che presso lui sia giunto,
E quando avvicinatosi
Lo vede a un certo punto;

Discostasi dall’albero,
Pone l’ombrello in resta,
E, su, con voce orribile,
Su, grida, o roba o testa.

Il buon pedante gelido
Confondesi, ristà,
E sclama in arretrandosi:
La vita per pietà.

Scoppian le risa: accorrono
I giovani al romore:
Cleon con detti amabili
Consola il precettore.

Non temer nulla, dicegli,
Eh, vedi, è stato un giuoco.
Il meschinel ricupera
I sensi appoco appoco.

E l’anca percuotendosi,
In tuono di pietade,
Oh dice, incauti giovani,
Oh malaccorta etade!

Se in tasca, il ciel ne liberi!
Trovavami un coltello
Di voi… qual rischio barbaro!..
Facea crudel macello.

I tre figliuoli attoniti
Che replicar non sanno;
Si pentono, incamminansi
E ragionando vanno.

Oh Dio, fra lor dicevano,
Che gran periglio! io fremo…
Son burle che si pagano…
Mai più non ne faremo.

Alfin così com’erano
Del tristo error compunti,
Dopo non lungo spazio
Alla città fur giunti.

E allor che raccontavano
Il flebile accidente,
Sien grazie al ciel, diceano,
Non n’è successo niente.

Per lor già necessaria
La mensa più non era
Nè far due cene debbesi
In una stessa sera.

Per dar quindi rimedio
Alle sofferte pene,
Che tosto a letto andassero
Fu giudicato bene.

E il precettor, dall’abito
Levandosi ogni arnese,
A trar di tasca vennesi
Un suo coltello Inglese.




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