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NOTE.

 

 

(1) [= I, 79] Il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa canzone s’introduce a poetare, cioè da Simonide; tenuto dall’antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto, che più rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l’epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell’undecimo libro, dove recita anche certe parole di esso poeta in questo proposito, due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell’ultima strofe. Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e da altra parte riguardando alle qualità della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento più degno di poema lirico, nè più fortunato di questo che fu scelto, o più veramente sortito, da Simonide. Perocchè se l’impresa delle Termopile fa tanta forza a noi che siamo stranieri verso quelli che l’operarono, e con tutto questo non possiamo tenere le lacrime a leggerla semplicemente come passasse, e ventitre secoli dopo ch’ella è seguita; abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere in un Greco, e poeta, e dei principali, avendo veduto il fatto si può dire, cogli occhi propri, andando per le stesse città vincitrici di un esercito molto maggiore di quanti altri si ricorda la storia d’Europa, venendo a parte delle feste, delle maraviglie, del fervore di tutta un’eccellentissima nazione, fatta anche più magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria acquistata, e dall’emulazione di tanta virtù dimostrata pur dianzi dai suoi. Per queste considerazioni, riputando a molta disavventura che le cose scritte da Simonide in quella occorrenza, fossero perdute, non ch’io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell’animo del poeta in quel tempo, e con questo mezzo, salva la disuguaglianza degl’ingegni, tornare a fare il suo canto; del quale io porto questo parere, che o fosse maraviglioso, o la fama di Simonide fosse vana, e gli scritti perissero con poca ingiuria. Lettera a Vincenzo Monti premessa alle edizioni di Roma e di Bologna.

(2) [= III, 80] Di questa fama divulgata anticamente, che in Ispagna e in Portogallo, quando il sole tramontava, si udisse di mezzo all’Oceano uno stridore simile a quello che fanno i carboni accesi, o un ferro rovente, quando è tuffato nell’acqua, vedi Cleomede Circular. doctrin. de sublim. l. 2. c. 1. ed. Bake, Lugd. Bat. 1820. p. 109. seq. Strabone l. 3. ed. Amstel. 1707. p. 202. B. Giovenale Sat. 14. v. 279. Stazio Silv. l. 2. Genethl. Lucani v. 24. seqq. ed Ausonio Epist. 18. v. 2. Floro l. 2. c. 17. parlando delle cose fatte da Decimo Bruto in Portogallo: peragratoque victor Oceani litore, non prius signa convertit, quam cadentem in maria solem, obrutumque aquis ignem, non sine quodam sacrilegii metu, et horrore, deprehendit. Vedi ancora le note degli eruditi a Tacito de Germ. c. 45.

(3) [= III, 96] Mentre la notizia della rotondità della terra, ed altre simili appartenenti alla cosmografia, furono poco volgari, gli uomini ricercando quello che si facesse il sole nel tempo della notte, o qual fosse lo stato suo, fecero intorno a questo parecchie belle immaginazioni: e se molti pensarono che la sera il sole si spegnesse, e che la mattina si raccendesse, altri immaginarono che dal tramonto si riposasse e dormisse fino al giorno. Stesicoro ap. Athenaeum l. 11. c. 38. ed. Schweigh. t. 4. p. 237. Antimaco ap. eumd. l. c. p. 238. Eschilo l. c. e più distintamente Mimnermo, poeta greco antichissimo, l. c. cap. 39. p. 239. dice che il sole, dopo calato, si pone a giacere in un letto concavo, a uso di navicella, tutto d’oro, e così dormendo naviga per l’ Oceano da ponente a levante. Pitea marsigliese, allegato da Gemino c. 5. in Petav. Uranol. ed. Amst. p. 13. e da Cosma egiziano Topogr. christian. l. 2. ed. Montfauc. p. 149. racconta di non so quali barbari che mostrarono a esso Pitea il luogo dove il sole, secondo loro, si adagiava a dormire. E il Petrarca si accostò a queste tali opinioni volgari in quei versi, Canz. Nella stagion, st. 3.

Quando vede ’l pastor calare i raggi
Del gran pianeta al nido ov’egli alberga.

Siccome in questi altri della medesima Canzone st. 1. seguì la sentenza di quei filosofi che per virtù di raziocinio e di congettura indovinavano gli antipodi.

Nella stagion che ’l ciel rapido inchina
Verso occidente, e che ’l dì nostro vola
A gente che di là forse l’aspetta.

Dove quel forse, che oggi non si potrebbe dire, fu sommamente poetico; perchè dava facoltà al lettore di rappresentarsi quella gente sconosciuta a suo modo, o di averla in tutto per favolosa: donde si dee credere che, leggendo questi versi, nascessero di quelle concezioni vaghe e indeterminate, che sono effetto principalissimo ed essenziale delle bellezze poetiche, anzi di tutte le maggiori bellezze del mondo.

(4) [= III, 132] Di qui alla fine della stanza si ha riguardo alla congiuntura della morte del Tasso, accaduta in tempo che erano per incoronarlo poeta in Campidoglio.

(5) [= VI, 1] Si usa qui la licenza, usata da diversi autori antichi, di attribuire alla Tracia la città e la battaglia di Filippi, che veramente furono nella Macedonia. Similmente nel nono Canto si seguita la tradizione volgare intorno agli amori infelici di Saffo poetessa, benchè il Visconti ed altri critici moderni distinguano due Saffo; l’una famosa per la sua lira, e l’altra per l’amore sfortunato di Faone; quella contemporanea d’Alceo, e questa più moderna.

(6) [= VII, 29] La stanchezza, il riposo e il silenzio che regnano nelle città, e più nelle campagne, sull’ora del mezzogiorno, rendettero quell’ora agli antichi misteriosa e secreta come quelle della notte: onde fu creduto che sul mezzodì più specialmente si facessero vedere o sentire gli Dei, le ninfe, i silvani, i fauni e le anime de’ morti; come apparisce da Teocrito Idyll. 1. v. 15. seqq. Lucano l. 3. v. 422. seqq. Filostrato Heroic. c. 1. §. 4. opp. ed. Olear. p. 671. Porfirio de antro nymph. c. 26. seq. Servio ad Georg. l. 4. v. 401. e dalla Vita di san Paolo primo eremita scritta da san Girolamo c. 6. in vit. Patr. Rosweyd. l. 1. p. 18. Vedi ancora il Meursio Auctar. philolog. c. 6. colle note del Lami opp. Meurs. Florent. vol. 5. col. 733. il Barth Animadv. ad Stat. part. 2. p. 1081. e le cose disputate dai comentatori, e nominatamente dal Calmet, in proposito del demonio meridiano della Scrittura volgata Psal. 90. v. 6. Circa all’opinione che le ninfe e le dee sull’ora del mezzogiorno si scendessero a lavare ne’ fiumi e ne’ fonti, vedi Callimaco in lavacr. Pall. v. 71. seqq. e quanto propriamente a Diana, Ovidio Metam. l. 3. v. 144. seqq.

(7) [= VIII, 47] Egressusque Cain a facie Domini, habitavit profugus in terra ad orientalem plagam Eden. Et aedificavit civitatem. Genes. c. 4. v. 16.

(8) [= VIII, 117] È quasi superfluo ricordare che la California è posta nell’ultimo termine occidentale di terra ferma. Si tiene che i Californi sieno, tra le nazioni conosciute, la più lontana dalla civiltà, e la più indocile alla medesima.

(9) [= XXIII, Titolo] Plusieurs d’entre eux (parla di una delle nazioni erranti dell’Asia) passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins. Il Barone di Meyendorff Voyage d’Orenbourg à Boukhara, fait en 1820. appresso il giornale des Savans 1826. septembre p. 518.

(10) [= XXIII, 132] Il signor Bothe, traducendo in bei versi tedeschi questo componimento, accusa gli ultimi sette versi della presente stanza di tautologia, cioè di ripetizione delle cose dette avanti. Segue il pastore: ancor io provo pochi piaceri (godo ancor poco); nè mi lagno di questo solo, cioè che il piacere mi manchi; mi lagno dei patimenti che provo, cioè della noia. Questo non era detto avanti. Poi, conchiudendo, riduce in termini brevi la quistione trattata in tutta la stanza; perchè gli animali non s’annoino, e l’uomo sì: la quale se fosse tautologia, tutte quelle conchiusioni dove per evidenza si riepiloga il discorso, sarebbero tautologie.

(11) [= XXXII, 34] Pelliccia in figura di serpente, detta dal tremendo rettile di questo nome, nota alle donne gentili de’ tempi nostri. Ma come la cosa è uscita di moda, potrebbe anche il senso della parola andare fra poco in dimenticanza. Però non sarà superflua questa noterella.

(12) [= XXXIV, 51] Parole di un moderno, al quale è dovuta tutta la loro eleganza.

 

Omissis – Nell’edizione fiorentina del 1831 (ove mancavano le ultime tre) erano presenti altre due note:

 

[II, 102] L’autore, per quello che nei versi seguenti (scritti in sua primissima gioventù) è detto in offesa degli stranieri, avrebbe rifiutata tutta la canzone, se la volontà di alcuni amici, i quali miravano solamente alla poesia, non l’avesse conservata.

[XVI F31 = XVIII N35, nota al titolo] ,,La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. In fine è la donna che non si trova.,, Nuovo Ricoglitore di Milano, anno I, p. 160. [in realtà p. 660].

 

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